La psicoanalisi parte dallo stesso presupposto: aprire la porta a un paziente che sta male e vuole liberarsi di un sintomo o vuole modificare un comportamento, un atteggiamento, un pensiero, un’angoscia…che gli crea problemi a relazionarsi con gli altri. Ed è proprio quando qualcosa viene vissuto come un problema che può nascere una domanda di cura.
In psicoanalisi non ci fermiamo però solo a questo: aiutare una persona a vivere meglio la sua vita è una nostra prerogativa di clinici, ma ciò non avviene attraverso l’assistenzialismo, la ricetta, il protocollo predefinito e valido per tutti; questo è, giustamente, il campo della medicina e di altri approcci psicoterapeutici che propongono pacchetti di cura uguali per tutti.
La psicoanalisi va alla ricerca del soggetto che sta dietro alla persona, della sua verità e della sua responsabilità nel portare avanti la sua vita. Responsabilità non la intendo all’interno di una concezione negativa, di colpa o di errore; ma come una implicazione negli eventi della nostra vita, nel modo che abbiamo di interpretare e reagire agli eventi, nelle scelte consapevoli e meno consapevoli che compiamo.
La psicoanalisi non si limita a risolvere i sintomi, a correggere o normalizzare la vita delle persone, adeguandola e conformandola a degli standard sociali. Cerca, invece, di scoprire le cause che sono alla base delle sofferenze e cosa influisce in un individuo a vivere male. O meglio, è il paziente che lo fa in analisi parlando liberamente di sé, raccontando tutto ciò che gli viene in mente.
In poche parole, la psicoanalisi si occupa dell’inconscio. E le libere associazioni contribuiscono a farlo emergere. Sigmund Freud, per primo, scoprì che i disturbi psichici hanno origine proprio nell’inconscio, da lui inteso come un “luogo” della mente di cui non sappiamo nulla perché lontano dalla coscienza. Con il parlare libero e spontaneo l’inconscio può essere più facilmente accessibile, così come lo è attraverso i sogni o in quelle situazioni che si verificano al di fuori del nostro controllo e che Freud definiva atti mancati: i lapsus, le dimenticanze, errori generici.
In analisi, dunque, conoscendo bene l’efficacia delle libere associazioni, invitiamo a parlare prima di pensare, e non il contrario.
L’inconscio è qualcosa di quanto più personale ci possa essere. Lo possiamo considerare non solo come un luogo, ma, come avrebbe detto Jacques Lacan, un’altra scena del nostro essere, quella che non appare, ma che esiste e che ha un suo funzionamento, le sue regole, un suo linguaggio. Non è solo un contenitore ma è qualcosa che lavora, seleziona, ritaglia continuamente ciò che trova per farne la fonte dei nostri desideri e il fondamento della nostra soggettività.
Ciò che avviene nella stanza d’analisi è qualcosa di magico ed efficace, per comprenderlo a fondo bisognerebbe provarlo. E per provarlo dovremmo averne sia i motivi sia il coraggio.
“In psicoanalisi i termini malato, medico, medicina non sono esatti, non si usano. Non sono giuste neppure le formule passive che si adoperano comunemente. Si dice «farsi psicoanalizzare». È sbagliato. Chi fa il vero lavoro, nell’analisi, è quello che parla, il soggetto analizzante. Anche se lo fa nel modo suggerito dall’analista, che gli indica come procedere e lo aiuta con interventi. Gli viene fornita anche un’interpretazione, che a prima botta sembra dare un senso a quello che l’analizzante dice.In realtà l’interpretazione è più sottile, tesa a cancellare il senso delle cose di cui il soggetto soffre. Il fine è quello di mostrargli, attraverso il suo stesso racconto, che il suo sintomo, la malattia, diciamo, non ha alcun rapporto con niente, è privo di qualsiasi senso. Quindi, anche se in apparenza è reale, non esiste”. [Jacques Lacan]