Quando la persona si racconta

Quando la persona si racconta


Parlare di racconto di sé in un’epoca come la nostra, nella quale l’utilizzo della parola scritta sembra essere stato accantonato a favore di una più immediata cultura dell’immagine, potrebbe apparire anacronistico. E invece no. Perché, a quanto pare, mai come ora si assiste alla diffusione del desiderio di raccontarsi. L’ultima frontiera dettata da questo bisogno sono i blog, i diari on-line.

Mettere per iscritto le situazioni ad alto tasso emotivo della propria vita, cercando di chiarire ciò che si pensa e si  sente al riguardo, viene, di solito, considerato come una forma di semplice “sfogo”, come ben sa chi ha l’abitudine di tenere un diario. Lo scrivente deposita sulla pagina scritta le proprie ansie, i conflitti, i ricordi dolorosi o, semplicemente, significativi,  confrontandosi con se stesso come se si stesse guardando alla specchio.

Si tratta, in realtà, non solo di uno sfogo, ma di una attività che può dare molti vantaggi in termini di benessere: miglioramento dello stato generale di salute, modificazione in senso positivo degli atteggiamenti individuali e delle relazioni interpersonali, incremento dell’efficienza personale.
Partendo da questa premessa, la scrittura introspettiva viene proposta, in ambito psicopedagogico, come un metodo di autoconsapevolezza, grazie al quale è possibile approfondire la conoscenza di sé e comprendere in che direzione stia andando la propria esistenza. L’impiego del metodo autobiografico, inoltre, aiuta il narratore a capire che nessuna storia di vita può essere inquadrata in schemi di sviluppo precostituiti, uguali per tutti.

Si potrebbe obiettare che l’approccio autobiografico faccia correre il rischio alle persone di chiudersi troppo in se stesse; lo scopo del lavoro di scrittura è esattamente l’opposto: si vuole dare spazio, nel corso della narrazione, a tutte le persone significative che abitano e che  hanno abitato la nostra storia di vita, contribuendo a farci essere ciò che siamo nel momento attuale. In questo senso, la riflessione autobiografica diventa la storia degli incontri che hanno costellato l’esistenza.

A questo si aggiunge che la conoscenza di sé e della nostra storia ci consente di instaurare rapporti interpersonali più profondi, perché l’essere umano è portato per natura a rappresentare la realtà sotto forma narrativa e ad utilizzare il racconto come “merce di scambio” nel relazionarsi agli altri.

Ciò non significa che, attraverso la scrittura, si possa risolvere ogni problema inerente ai rapporti interpersonali; semplicemente, scrivere rappresenta, per il soggetto narrante, un trampolino di lancio per mettersi pienamente in gioco nelle relazioni, andando incontro alle storie di vita di coloro che ci circondano e con i quali entriamo in contatto.

La riflessione autobiografica, inoltre, contribuisce ad inserire le vicende di vita in un continuum storico, aiutando la persona ad andare oltre le contingenze del presente e a proiettarsi nel futuro, alla luce di quanto si è già fatto e si va facendo. Non si tratta di fuggire dal presente, ma, al contrario, di viverlo con maggiore consapevolezza, con un occhio alla progettualità futura.

Come avviene l’attuazione concreta del lavoro autobiografico? Se facciamo riferimento non solo alla scrittura introspettiva, ma anche alla condivisione dei testi scritti in un colloquio, constatiamo che le caratteristiche del colloquio autobiografico non differiscono  di molto, a livello di attuazione pratica, dalle convenzionali forme del colloquio di consulenza psicologica; in effetti, l’oggetto in esame è sempre la storia di vita che lega il narratore ad un ascoltatore partecipe.

Naturalmente, il lavoro autobiografico va distinto da quello clinico in senso stretto: la finalità primaria del primo non è quella di andare ad intervenire su di una condizione patologica conclamata, ma di condividere una vicenda esistenziale.

È necessario, a questo proposito, non veicolare il concetto, profondamente errato, che  condividere nell’ambito di un colloquio i testi frutto di riflessione autobiografica sia un’operazione “innocua” e alla portata di tutti, dato che le potenzialità narrative sono inerenti all’essere umano in quanto tale. Rischieremmo di favorire l’idea di un “fai da te” piuttosto generico, che, in concreto,  sarebbe davvero molto pericoloso, perché metterebbe strumenti conoscitivi e terapeutici in mano a persone che non hanno le competenze per gestirli.

Fatta questa doverosa precisazione, ci sono  alcuni aspetti che vale la pena tenere presente.  Se si sensibilizzano, con attenzione, le persone all’ascolto delle storie di vita altrui, partendo dalla  consapevolezza della propria, si può diffondere un atteggiamento più consapevole rispetto alla necessità di promuovere il benessere del singolo.

In altre parole, viene veicolata l’idea che il benessere psicologico non sia una condizione da dare per scontata fino al momento in cui non insorga uno stato di malessere, bensì una condizione che va coltivata per tutto l’arco della vita.

Ciò significa che il lavoro autobiografico rappresenta uno strumento molto efficace per coltivare nelle persone il senso della ricerca, della problematicità, il quale costituisce l’esatta antitesi di un’identità cristallizzata, che rifiuta di mettersi in discussione e non sa fare fronte alle contraddizioni e alle sfide sempre diverse che la vita presenta.

In altre parole, il benessere  non nasce dalla conservazione di schemi di vita, considerati indice del possesso di equilibrio, quanto piuttosto dalla capacità di sapersi mettere in discussione, di convivere con la propria complessità e le proprie contraddizioni, nella convinzione che la vita stessa altro non sia che un percorso continuo di crescita e di consapevolezza.

 

Dr. ssa Annalisa Bertuzzi

Psicologa Psicoterapeuta